Ecofemminismo su DWF

postato il 1 Mag 2022
Ecofemminismo su DWF

Ho ricevuto e letto d’un fiato l’ultimo numero del trimestrale DWF che abbiamo discusso con la redazione che ringrazio per l’invito a partecipare e di cui riporto una parte dell’editoriale:

Gli ecofemminismi sono una costellazione che abbraccia molteplici approcci, contesti, storie collettive. Da un punto di vista generale, gli studi “di genere” che fanno riferimento all’ambiente e alla scienza vengono fatti rientrare in quel filone “ecofemminista” nato in America negli anni Sessanta dall’incontro tra movimenti di liberazione delle donne e movimenti ecologisti. Una lettura che mette in connessione l’oppressione delle donne e quella della natura nella società occidentale. Al centro il dominio e lo sfruttamento che lascia, tra le altre cose, scivolare donne e natura le une sull’altra rischiando di sfociare nell’essenzialismo. Nel numero, che presentiamo, le autrici fanno spesso attenzione a evidenziare la criticità del concetto stesso di “natura”, consapevoli di come questa idea sia in parte frutto di un processo culturale che a partire da una separazione illusoria produce oppressione e sfruttamento. Siamo tutte natura (uomini e donne, con buona pace del pensiero patriarcale) e le dicotomie, anche stavolta, si dimostrano non solo violente, ma anche silenti e incapaci di restituire la complessità dell’esistente.

Da quel primo ecofemminismo molto sembrerebbe essere cambiato.

Le epistemologie femministe, la critica queer, le teorie che mirano alla decostruzione del soggetto umano, lo sguardo multispecie, hanno contribuito a ribaltare quella sovrapposizione tra donne e natura e hanno messo radicalmente in discussione l’idea di umano come specie “speciale”. Questo cambio di prospettiva ci vede attore politiche in mezzo ad altri attori politici non umani.

Tutto ciò ci ha spinto a porci domande importanti sulle possibili interlocuzioni con un posizionamento ecofemminista in Italia oggi, alla luce del quadro (anche) pandemico. Siamo partite da un’urgenza politica, dal bisogno di trovare il senso nelle pratiche e nei vissuti di questo approccio. Chiedendoci quali pratiche, quali spazi e realtà ci parlano? Quale è l’agire collettivo? Eravamo affamate di pratiche, siamo andate a cercarle.

Nel pensiero e nella pratica politica delle donne, femministe e non, che si occupano dell’ambiente, nonostante le diversità di contesto e d’impostazione, c’è un elemento comune: partire da un’idea (e da un vissuto) radicati nel “prendersi cura”; una visione dell’ambiente come luogo in cui si vive, si ama, si costruiscono relazioni.

Il numero ci guida alla scoperta di esperienze di rapporto tra umano e non umano (Bosisio, Cirillo) ed entra in dialogo con le riflessioni di alcune donne (Mies/De Joannon, Conti/Turi-Romagnoli, Pulcini/Merenda) che per loro parte hanno tentato di mettere insieme lo sguardo femminista e un approccio prioritario sull’ecologia: la responsabilità, la cura, la relazione tra specie. Ancora, tenta di indagare l’ecofemminismo nella sua pluralità, facendone un quadro non solo teorico ma anche di pratiche, connessioni e alleanze transnazionali (Sarti-Asquer, Chiricosta). A partire dal suo vissuto, Laura Cima ci racconta invece dell’incrocio tra il movimento neofemminista degli anni Settanta, l‘ecologismo e le lotte istituzionali. In un dialogo tra ieri e oggi, i testi pubblicati illustrano e interrogano l’ecofemminismo nel suo farsi pratica politica, nel rapporto tra collettivi, istituzioni, la nascita di nuovi gruppi (Matsutake, Barbara, Di Martino), nel creare nuovi spazi d’immaginazione (Tola).

Questo numero di Dwf lascia aperti molti interrogativi, con il valore aggiunto di mostrare anche i limiti e le contraddizioni delle vie percorse finora. Alle domande poste abbiamo infatti trovato soltanto alcune risposte. Lo riteniamo una narrazione comunque importante, perché dipinge un quadro di nodi, approcci e esperienze a oggi rilevanti per molte donne, attiviste e studiose. Ci ha anche convinto della necessità di avviare ulteriori scambi a partire da alcuni spunti di riflessione: l’ecosistema è qualcosa da cui non possiamo prescindere; non vogliamo solo essere consumatrici etiche, ma donne in lotta, assieme; vogliamo inaugurare pratiche politiche, modi di allearci (anche con specie e linguaggi non umani) in modo femminista. Non è facile capire bene come portare avanti le battaglie in modo incarnato; è vitale mantenere sempre il corpo al centro anche di questo tipo di riflessione politica; è imprescindibile trovare un contatto tra chi parte dall’esperienza e dal proprio vissuto per definire la relazione col mondo e chi scrive, studia e immagina questa relazione.

Da qui vogliamo aprire la discussione, affamate di politica.

(La Redazione)

Riporto anche l’inizio del mio contributo che, visto il mio ingresso negli ottanta anni durante guerra e pandemia, ho scritto tornando con gran nostalgia agli anni in cui si affacciava la coscienza ecofemminista, si definiva la teoria e si iniziava una politica istituzionale e di movimento, a cui ho avuto la fortuna di partecipare. Ero meno attratta da un futuro come preannunciato dall’attuare presente distopico, ma più affascinata dall’utopia “herland” di inizio Novecento. Oggi il riconoscimento del cognome materno imposto a una società patriarcale come quella italiana, che non si è data ancora una legge ma deve farlo dopo la recente chiara sentenza della Corte Costituzionale, mi ha riportato un po’ di fiducia nel futuro ed ha aperto una importante fase reale, simbolica e nuova di genealogia femminile in cui anche gli altri articoli, tutti molto interessanti, ma per me il ricordo di Elena Pulcini emozionante, ci aiuteranno a guidare il processo con responsabilità e passione.

Essere in armonia “La mia storia è ecofemminista fin da quando mi sono ribellata da adolescente all’autorità di mio padre, che non ha mai alzato la voce e tanto meno le mani, discutendo di politica a tavola con lui, vecchio liberale di origine contadina che non ha mai preso la tessera fascista e ha visto suo fratello, ingegnere alla Fiat, prigioniero in un rastrellamento e poi ucciso a Mauthausen. Ho avuto tante maestre allora: sopra tutte Maria Magnani Noya, poi sindaca a Torino, perchè mi ha trasmesso la sua passione politica come insegnante di diritto ed economia dalle suore dove mio padre mi aveva iscritta. Mia madre invece, che mi svegliava ogni mattina coprendomi di baci e chiamandomi “mia bela cita” mi ha regalato la sicurezza in me stessa, l’empatia che a volte diventava complicità, e la sicurezza nell’opporsi a ciò che mio padre voleva da lei, coinvolgerla nella sua azienda mentre lei amava fare la casalinga,

Una storia che si è concretizzata già alla fine degli anni Sessanta quando iniziai i confronti con le femministe torinesi traducendo i libri di quelle bostoniane, a cominciare da Noi e il nostro corpo, occupando consultori e il S.Anna, la più grande clinica di maternità europea, per fare self-help e autocoscienza e pretendere rispetto e pratiche abortive meno violente dei raschiamenti da tutto il personale a partire dai primari. Il corpo e la non violenza al centro, l’empatia e il prendersi ciò di cui avevamo bisogno, la politica e le manifestazioni per il divorzio e l’aborto, la contrattazione con il Comune, le proposte di legge elaborate in assemblea invece dell’estraneità predicata da Muraro, che comunque ci interessava rispetto all’elaborazione della proposta teorica della differenza e meno per quella dell’affidamento, ma con cui il confronto era continuo come con tutti gli altri luoghi femministi.” Buona lettura, non perdetevi questo numero.

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